Chi aveva pensato di arginare una minaccia globale con risposte nazionali ha dovuto ricredersi in poche ore. La pandemia da coronavirus ha rimescolato le carte con tale rapidità da aver proiettato la politica italiana ed europea in una dimensione nuova e ancora da esplorare.
Dopo le esitazioni iniziali e la gaffe di Christine Lagarde, l’Unione Europea ha preso atto che la sfida politica sottesa al coronavirus era una sfida non solo al futuro dell’Italia ma riguardava l’Europa. Da Lagarde a Merkel, da Macron a Conte, si è fatta largo la consapevolezza che la pandemia ha trasformato il Vecchio continente in un campo di battaglia.
La frantumazione dell’Europa avrebbe indebolito a tal punto la capacità economica dei singoli Stati da renderli docili colonie commerciali delle ambizioni cinesi.
La reazione europea è stata, almeno per ora, all’altezza della sfida. Perché una cosa è diventata subito chiara: divisi usciremo tutti sconfitti. I milioni di maschere protettive che dalla Cina stanno inondando Italia, Francia, Belgio, Germania sono senz’altro il ricambio di gratitudine di un Paese che è stato aiutato nella crisi coronavirus. Ma non solo questo.
La Cina, con la facilità propria dei regimi autoritari, ha affrontato e risolto l’epidemia in 50 giorni. Un tempo breve e impossibile per i regimi democratici che devono convincere, informare, persuadere i cittadini. Oggi la Cina è tornata produttiva per il 90% delle grandi imprese e per il 65% delle PMI, mentre l’Occidente si è fermato e non sappiamo ancora per quanto resterà bloccato.
Ecco tutto il senso della sfida che ci aspetta per il “dopo”. Ecco perché il coronavirus è la prova d’appello concessa all’Europa per capire se la sua classe politica è matura per compiere il grande salto e rilanciare il progetto politico o se, al contrario, intimidita da questa emergenza lascerà che ogni Stato si rinchiuda entro i propri confini illudendosi così di ritrovare antiche certezze mentre sappiamo che ritroverà i propri antichi vizi e le le antiche debolezze.
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