Al netto della lotta di potere tra Pd e M5S, delle spinte centrifughe che dilaniano i grillini e delle tensioni europee su sussidi e prestiti, il governo Conte ha di fronte a sé due problemi giganteschi: mettere a punto un piano di riforme che possa ragionevolmente determinare una crescita dell’economia proporzionata all’indebitamento in corso; centrare realmente gli obiettivi stabiliti.
Ad oggi, l’attenzione è appuntata esclusivamente sul primo problema. Mancano una visione, un progetto, un’idea di sviluppo, dicono dalla Confindustria ai sindacati, dalle opposizioni a parte del Pd, dai giornali italiani ai centri studi internazionali.
Facciamo, però, professione di ottimismo e in un certo senso di fede. Immaginiamo che il governo Conte riesca a mettere a punto un “Piano di ripresa e resilienza” coi fiocchi. Non un patchwork di toppe come hanno fatto fino ad oggi, ma un bel vestito su misura di un’Italia nuova proiettata in una nuova era del lavoro e delle relazioni internazionali. Ebbene, quante probabilità ci sarebbero che la buona teoria si trasformi in una pratica concreta?
A giudicare in base all’esperienza recente, poche. Ad esempio. I 22 decreti legge emanati dall’inizio della pandemia richiedono 252 decreti attuativi in assenza dei quali nulla di ciò che è stato solennemente annunciato da Conte e dai suoi ministri diverrà mai realtà. Ad oggi ne sono stati varati 71. Del restante 72% nulla è dato sapere. Morale della favola: il decreto cosiddetto Semplificazioni non ha semplificato nulla.
Se poi guardiamo lo stato della Sanità nell’era Covid lo scetticismo aumenta. Giovedì scorso, la trasmissione Piazzapulita ha documentato una serie di agghiaccianti inefficienze: code fino a 10 ore per fare un tampone a Roma, pronto soccorsi chiusi (per Covid) a Napoli, ospedali nel caos.
Delle due l’una: se tutto ciò è causato dalla mancanza di risorse, è criminale non accedere al Mes; se il problema non sono i soldi, significa che la macchina pubblica non ha una guida o non è guidabile.
Esempi del genere ce ne sono a non finire. È perciò condivisibile lo scetticismo del professor Lorenzo Codogno, che essendo stato capo economista al ministero dell’Economia si presume parli con cognizione di causa: «Nel Paese c’è un problema di capacità di spesa: gli investimenti pubblici toccheranno il 4% del Pil, mi chiedo come possa la Pubblica amministrazione italiana coordinare e gestire questa enorme mole di investimenti. Non è solo una questione di progetti, ma di gestione degli stessi». Problema serio il primo; problema serissimo il secondo. Ignorarli sarebbe un crimine, pensare di superarli senza una riforma radicale della Pubblica amministrazione non lo sarebbe meno.
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