#iorestoacasa, certamente. Ma accade che l’hashtag perfetto cozzi con la consapevolezza che #iorestoacasa non sia uguale per tutti perché “la quarantena romantica è un privilegio di classe”, come recita uno striscione apparso su un balcone spagnolo.
#iorestoacasa non è uguale per le famiglie numerose che abitano in mini appartamenti, non lo è per donne e bambini che vivono in famiglie violente e nella paura 24h al giorno.
#iorestoacasa non lo è per i senza fissa dimora che una casa non ce l’hanno; per i depressi, gli autistici e altre categorie sociali e psicologiche già troppo spesso abbandonate in condizioni normali e ora completamente ignorate.
#iorestoacasa non è uguale per i liberi professionisti, per i lavoratori autonomi, per i piccoli imprenditori.
Anni fa ho smesso di essere una libera professionista massacrata da un sistema che non agevola il lavoro autonomo e non lo libera dal più incurabile virus di questo paese: la burocrazia. I professionisti sommano, in questo momento terribile, la preoccupazione per la propria salute e dei propri cari al dolore profondo di dover fermare il loro lavoro.
Suona dunque ormai intollerabile la demagogia, la politica degli slogan: la situazione è complicata per tutti, per alcuni più che per altri, e ognuno deve fare la sua parte, senza però pretendere dagli altri che tutti facciano la “stessa” parte.
Anche lo Stato però deve fare la propria parte, anzi avrebbe già dovuto farla da un pezzo con misure serie e non umilianti di sostegno economico, sociale e persino psicologico, al di là degli hashtag, degli slogan e degli arcobaleni.
E resta ormai stucchevole anche la gara alla solidarietà fai da te e spettacolarizzata, per quanto utile, perché a conti fatti si tratta di misure spot dal fiato corto. Sia la solidarietà che la responsabilità sembrano infine perdere di spontaneità e sostanza, strette fra giudizio e rabbia sociale. Si scandagliano gli stipendi, i politici sono sovente in prima linea nell’antipatia generalizzata, e noi stessi corroboriamo il tutto con generosità ridondanti, cosa buona, ma di poca efficacia senza un disegno di ridistribuzione vera, lineare, strutturata e non lasciata alla volontà – e in fondo anche alla possibilità – del singolo.
Per fare un gesto che porti davvero a decine e decine di milioni di euro, ci vorrebbe che il virus della complessità burocratica e amministrativa liberasse l’azione di questo Paese. Ci vorrebbe che venisse supportata, per esempio, una proposta che ho presentato in Parlamento per chiedere la creazione di un fondo di solidarietà che preveda un contributo da parte della classe politica, dei dirigenti e dei funzionari pubblici che percepiscono redditi oltre una certa soglia annua.
Un contributo di natura percentuale e progressiva, temporaneo, che può portare a un risultato economico importante.
Il numero di chi riceve uno stipendio di tutto rispetto da uno Stato al momento in difficoltà è altissimo: da tanti piccoli numeri si può ricavare un grande risultato.
Mi sono stati presentati almeno due ordini di problemi rispetto a questa mia proposta: uno è l’autonomia regolamentare delle Camere, l’altro la possibilità che i dipendenti “coinvolti” facciano ricorso. Probabilmente ha ragione chi mi ha posto queste obiezioni eppure io non riesco a non pensare che valga la pena provarci. Davvero ci sarebbe chi, in questo momento così doloroso, ricorrerebbe contro una richiesta di solidarietà che comporterebbe un sacrificio minimo per le proprie tasche da tempo e lautamente protette da uno Stato adesso in difficoltà?
Mi si parla di guerra? Bene, allora solo uniti come un esercito di soldati possiamo mettere in atto azioni concrete come istituire un fondo atto a produrre risultati solidi e capaci di quella programmazione che il singolo gesto di solidarietà volontario non consente.
Dobbiamo capire che nulla sarà più come prima e che i sacrifici devono quindi riguardare tutti, senza abdicare alcuna responsabilità dietro la maschera del gesto volontario. Nessuna ipocrisia e nessun figlio di un Dio maggiore è più concepibile, e tutto andrà fatto per predisporre misure che sostengano il tessuto sociale già da adesso e con un progetto di mantenimento e di ricostruzione poi.
Senza tutto questo probabilmente non ci ucciderà il virus, ma l’inedia morale, la solitudine, lo sconforto e quella sensazione di totale abbandono e sfiducia che non ti fa guardare avanti con speranza.
Serve un senso forte di solidarietà sociale, serve il coraggio di mettere in discussione situazioni al momento non più sostenibili.
Restiamo a casa, certo, ma restiamo, anche e soprattutto, umani.
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