I violenti scontri scoppiati il 27 settembre segnano un pericoloso aumento della gravità del conflitto che ormai dal 1988 oppone armeni e azerbaigiani sul Nagorno-Karabakh, che dal 1994 ha ottenuto una indipendenza de facto, non riconosciuta dalla comunità internazionale.
La responsabilità della ripresa del conflitto in Nagorno-Karabakh è certamente da attribuire all’Azerbaigian.
Frustrato dal pluridecennale stallo delle trattative diplomatiche e forte di un notevole rafforzamento economico e quindi militare, lo Stato azero ha deciso di riprendere con le armi la regione contesa e i territori circostanti, occupati dagli armeni tra il 1991 e il 1994.
Una svolta annunciata già dai violenti scontri del 12-14 luglio – avvenuti tra l’altro non nella regione contesa, ma in quella di Tavush, lungo il confine internazionale tra Armenia e Azerbaigian – nonché dall’intensificarsi della propaganda revanscista da parte delle autorità di Baku.
L’assoluto sostegno diplomatico offerto agli azeri dal presidente turco Erdogan ha ulteriormente aggravato la situazione in questo lasso di tempo. La Turchia, erede diretta dello stato che ha compiuto un genocidio, senza mai riconoscerlo, ai danni degli armeni ha in effetti una grandissima responsabilità nella crisi attuale, anche per l’indiretto sostegno militare fornito all’Azerbaigian. Si tratta di una situazione quanto mai delicata, che rischia seriamente di innescare un ampliamento del conflitto potenzialmente molto rischioso a livello internazionale, soprattutto per il posizionamento opposto di Russia e Turchia.
Il semplice mantenimento dello status quo in Nagorno-Karabakh, che a lungo è sembrato a molti attori della scena politica internazionale l’opzione più accettabile, pur se non certo ideale, appare ormai sempre più difficile da perseguire.
Di fronte ad una escalation così forte della tensione tra Armenia e Azerbaigian, lo stallo negoziale tra le parti e la sostanziale inazione della comunità internazionale accrescono il rischio concreto di un conflitto su larga scala.
In questa situazione la responsabilità principale ricade ancora una volta sul Gruppo di Minsk, la struttura che dal 1992 lavora sotto l’egida dell’OSCE per trovare una soluzione diplomatica al conflitto. Il Gruppo di Minsk è guidato da una copresidenza composta da Francia, Russia e Stati Uniti. Ne fanno inoltre parte, oltre ai rappresentanti di Armenia e Azerbaigian (l’Alto Karabakh ne è invece escluso), quelli di Bielorussia, Finlandia, Germania, Italia, Olanda, Portogallo, Turchia e Svezia. Il risultato più notevole della sua mediazione, sinora decisamente poco efficace, è costituito dai cosiddetti “Principi di Madrid”, stabiliti nel 2007, ma mai sottoscritti dalle parti in causa.
Come è noto, il confitto vede contrapporsi due principi del diritto internazionale. Uno è quello dell’integrità territoriale degli Stati, favorevole all’Azerbaigian, l’altro è quello del diritto dei popoli all’autodeterminazione, favorevole agli armeni.
Per uscire da questa impasse, geopolitica oltre che giuridica, è assolutamente necessario un cambio di marcia da parte della comunità internazionale, chiamata ad affrontare con maggior impegno e idee nuove una crisi che sta assumendo rapidamente dimensioni gravissime.
L’autore è professore ordinario presso il Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.
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