Purtroppo da sempre l’Italia investe nella ricerca di base la metà dei Paesi che hanno, in Europa e nel mondo, dimensioni e peso economico simili. Il dopo-pandemia è il tempo opportuno per cambiare questo stato di cose investendo per il lungo termine una piccolissima frazione dei fondi che saranno spesi per il necessario rilancio a breve termine dell’economia.
In Italia la situazione della ricerca ha molte ombre e poche luci. Innanzitutto, gli investimenti pubblici sono soltanto lo 0,50% del prodotto interno lordo (Pil), di cui lo 0,32% è speso in ricerca di base e lo 0,18% è dedicato alla ricerca applicata, investimenti che stanno nel rapporto 2:1. Mentre l’Italia spende in ricerca (di base e applicata) lo 0,50% del Pil, la Francia investe lo 0,8% e Danimarca, Finlandia e Germania spendono in media l’1%, il doppio dell’Italia. Differenze altrettanto grandi si hanno negli investimenti delle imprese in sviluppo sperimentale, che sono lo 0,9% del Pil in Italia, l’1,4% in Francia e il 2,1% in Germania. Anche per lo sviluppo la Germania spende il doppio dell’Italia (2,1% invece di 0,9%), ma questo è spiegabile perché il tessuto industriale italiano è fatto di piccole e medie imprese che poco investono in ricerca applicata e sviluppo.
La scarsezza dei fnanziamenti ha una prima grave conseguenza: su 1.000 lavoratori, i ricercatori pubblici e privati impegnati in progetti di ricerca e sviluppo sono 5,6 in Italia, 10,9 in Francia e 9,7 in Germania.
Lo stesso futuro della ricerca italiana è in pericolo: negli ultimi dieci anni il numero dei dottorandi di ricerca, malpagati, è diminuito nel tempo: meno di 9.000 completano ogni anno gli studi, mentre in Francia e in Germania sono, rispettivamente, 15.000 e 28.000. Inoltre, scarsi fnanziamenti e bassi stipendi fanno sì che molti di questi (pochi) dottori di ricerca si trasferiscano all’estero non per una specializzazione temporanea, ma per stabilirvisi defnitivamente.
Come risultato di tutte queste manchevolezze, il sistema industriale italiano è molto poco competitivo, come è provato quantitativamente dall’indice di competitività del World Economic Forum.
Vi è però una luce. Nonostante i fondi insufficienti e i pochi ricercatori, sovente in fuga, la produzione scientifica italiana è in miglioramento e ottima.
La mano pubblica investe soltanto 9 miliardi all’anno in ricerca e sviluppo, di cui circa 6 miliardi in ricerca di base e 3 miliardi in ricerca applicata. Nei prossimi anni, oltre a indebitarsi pesantemente per la ricostruzione economica, lo Stato dovrà assumersi il compito di preparare le tecnologie necessarie sia ad affrontare il riscaldamento climatico sia a costruire, nel lungo periodo, una società più resiliente e circolare gettando, contemporaneamente, le basi per la creazione di nuove imprese e nuovi lavori, oggi impensabili.
Poiché l’Italia è in grave ritardo rispetto a molti Paesi, è necessario cogliere il momento opportuno aumentando drasticamente, nei prossimi 6 anni, i fondi per la ricerca in modo da raggiungere nel 2026 una spesa in ricerca pubblica pari all’1,1% del Pil, a partire dall’attuale 0,50%.
Per centrare questo obiettivo la mano pubblica dovrebbe aggiungere al bilancio dell’anno prossimo, 1,5 miliardi di euro (di cui 1 miliardo per la ricerca di base e 0,5 miliardi per la ricerca applicata, in modo da mantenere il rapporto 2:1) e poi aumentare l’investimento del 14% all’anno per cinque anni. Così, tra tre anni il rapporto tra le spese in ricerca e il Pil sarà quasi uguale a quello 0,8% che la Francia ha oggi.
Nei prossimi sei anni, in parallelo con i finanziamenti, dovranno crescere sia il numero di borse di studio per i dottorati di ricerca sia gli organici degli Atenei e degli Enti di ricerca, privilegiando i gruppi di ricerca scientificamente più produttivi. Le competenze degli scienziati italiani e la dimostrata capacità di ben competere a livello internazionale sono la migliore garanzia dell’efficacia dell’aumento dei finanziamenti e dei posti, se attribuiti ai più capaci.
Ugo Amaldi ha lavorato nel Laboratorio di Fisica dell’Istituto Superiore di Sanità e al CERN, pubblicando 600 lavori di fisica subatomica e medica. Al CERN ha fondato e diretto per 13 anni la collaborazione DELPHI. Nel 1992 ha creato la ‘Fondazione per Adroterapia Oncologica’ TERA, che ha progettato il Centro Nazionale di Adroterapia CNAO di Pavia. Due milioni di allievi delle scuole superiori hanno studiato fisica sui suoi testi.
Il testo pubblicato è tratto dall’intervento “Per la transizione verso una società più resiliente è necessario finanziare la ricerca di base”, contenuto in “Pandemia e resilienza”, a cura di Cinzia Caporale e Alberto Pirni (Cortile dei Gentili), edizioni Consiglio Nazionale delle Ricerche.
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