La possibilità di un governo Di Maio è ormai sfumata. La carica di premier gli fu offerta lo scorso agosto da Matteo Salvini, ma in quel momento la spregiudicatezza dell’uno non si specchiò nei calcoli dell’altro. Per come s’è nel frattempo ridotto il passeggero, è difficile pensare che un altro treno possa in futuro fermarsi alla stazione del pur giovane Giggino.
A differenza di Luigi Di Maio, Salvini può ancora esibire il controllo del partito e un consenso popolare stimato oltre il 30%. Esattamente quel controllo e quel consenso che esibiva Di Maio, con il Movimento Cinque Stelle, appena due anni fa. Se la vita è caduca, le leadership politiche oggi non lo sono meno.
A parte il caso scioccante di Giuseppe Conte, per arrivare a ricoprire la carica di presidente del Consiglio e per poter poi effettivamente esercitarne la funzione realizzando il proprio programma, bisogna in primo luogo avere un programma. Ma soprattutto bisogna stringere alleanze, essere riconosciuti e possibilmente rispettati. Non è conformismo, non è una rinuncia alla propria identità e alla propria politica. È che quelli che entrano nel saloon sparando in aria generalmente non ne escono con le proprie gambe. Nel saloon bisogna entrare, ma bisogna poterlo fare a testa alta per essere accettati al tavolo principale e trovarsi nelle condizioni, economiche e reputazionali, di giocare al meglio la propria partita di poker. È così che si fa “l’interesse nazionale”. Si fa con la Politica e con la leadership.
Matteo Salvini non sembra voler essere riconosciuto come “leader” neanche dai propri alleati.
Non c’è autorità interna o internazionale, capo di governo o di Chiesa, operatore finanziario o investitore estero che guardi a lui con fiducia. Un problema di carattere, si direbbe. E, dopo il fallimento dell’autoreferendum in Emilia Romagna, si comincia a dire anche nella Lega. Farsi leader e fare politica: è solo così che Matteo Salvini può sperare di arrivare un giorno a palazzo Chigi. Sta a lui dimostrare di esserne capace.
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