I generali combattono sempre la guerra precedente. Ogni tanto lo fanno perché gli fa comodo. Se lo Stato si trova a dover nazionalizzare una banca, come è avvenuto nella crisi del 2007-2008, fa bene ad azzerarne il consiglio di amministrazione. Lo fa sulla base della congettura che quegli amministratori abbiano valutato male i rischi che stavano correndo. È una congettura ragionevole, che tenta di non smarrire, anche in un “salvataggio”, il filo delle responsabilità.
Oggi la crisi non è dovuta alla hybris degli imprenditori o all’avidità dei banchieri. L’economia è stata “spenta” dallo Stato, in nome del superiore interesse della salute pubblica. Una parte rilevante delle imprese private non ha avuto entrate per due mesi, un sesto dell’anno.
Nelle settimane a venire, le lancette dell’orologio non verranno riportate indietro. Alcune attività, semplicemente, per un po’ non si potranno più fare. Altre andranno a singhiozzo. Tutte avranno bisogno di ripensare la propria struttura dei costi.
Non siamo, quindi, di fronte a nazionalizzazioni emergenziali, necessarie per evitare che si blocchi il sistema dei pagamenti. Il sostegno alle imprese somiglia più a una specie di risarcimento, dovuto proprio perché la risposta all’epidemia è stata una quarantena generale. Il “mercato” altro non è che un insieme di scambi e gli scambi sono più difficili, e in alcuni casi impossibili, in regime di “distanziamento sociale”: proprio perché di interazioni sociali si tratta.
I progetti di ingresso del capitale nelle medie imprese italiane non si spiegano con l’emergenza, ma con l’ideologia.
L’obiettivo, dichiarato, è riorientarne gli investimenti nel lungo periodo, magari in nome della rivoluzione verde. Lo scopo potrà anche essere lodevole, ma è difficile non essere perplessi sui tempi e sui modi.
Sui tempi: in un momento nel quale le imprese dovranno attingere al proprio capitale è curioso proporre loro investimenti i cui effetti si vedranno in tempi lunghissimi. In più, si tratta di investimenti pensati per produrre effetti benefici per la società nel suo complesso ma non necessariamente per il bilancio della singola azienda. Siccome la crisi, oggi, sta lì, nei bilanci delle singole aziende, sarebbe opportuno per una volta dare priorità a questi ultimi.
Sui modi: si vogliono dare aiuti “condizionati”, per usare una parola che stiamo cercando di fare sparire dal vocabolario europeo. Ma condizionati a cosa? Le condizioni che l’Europa porrebbe all’Italia riguardano i saldi di bilancio, non entrano nel merito degli impegni che lo Stato decide di prendersi. Il governo non pensa di operare per raddrizzare conti pericolanti nell’impresa privata, ma di darle obiettivi. Questo significa non presumere che chi ha mal condotto un’azienda sia responsabile del suo dissesto (la congettura di cui dicevamo prima), ma che le priorità di alcuni settori industriali e persino delle singole aziende siano più chiare al Ministro dello Sviluppo Economico e ai suoi consiglieri di quanto lo siano a chi si confronta tutti i giorni con i consumatori, la concorrenza e l’evoluzione delle tecnologie.
Se davvero si procedesse in quella direzione, il governo sarebbe chiamato a uno sforzo erculeo, in termini di accumulazione di conoscenze e attivazione di competenze. Uno sforzo erculeo, probabilmente destinato a produrre un esito fantozziano.
*Testo raccolto dalla redazione di siamovocelibera.it
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